venerdì 31 gennaio 2014

Degli esercizi di memoria, ovvero i tesori delle Teche

Giovedì (lo so, siamo già a venerdì, però per me è la coda di un giovedì non ancora finito), quindi cineforum. Pronti? Via!

Il giochino è semplice. Siccome su Carlo Alberto Dalla Chiesa, Paolo Borsellino e Giovanni Falcone si va tutti sul sicuro, proviamo invece a ricordarci anche di Boris Giuliano, Rocco Chinnici, Pio LaTorre, Mario Francese?
Soprattutto a ricordare cosa hanno fatto per la lotta contro la mafia, loro che della mafia sono stati vittime?
Basterebbero gli ultimi minuti di "La mafia uccide solo d'estate" a fare una lezione di memoria collettiva a un Paese che di memoria troppo spesso non ne ha.



Il film è solo apparentemente leggero, come in fondo lascia ben intuire il trailer ufficiale. In realtà è un crescendo doloroso, che culmina, a parer mio, in quella scena che probabilmente solo chi c'era può ricordare con altrettanta intensità.
21 luglio 1992, in Cattedrale a Palermo i funerali degli uomini della scorta del giudice Borsellino: la sciagurata idea di vietare i funerali alla folla, per proteggere i politici. Anche quella fu violenza. Polizia contro cittadini. Mani alzate e quel grido: "Fuori lo Stato dalla mafia". Poi la corsa a scavalcare il muro della Cattedrale.
Il film racconta quegli anni e quei protagonisti della lotta alla mafia, dipingendoli nella loro umanità, che sta in una iris alla ricotta, in un sorriso davanti a un cuore disegnato sul marciapiede, in una intervista concessa a un bambino.
E si chiude in una sorta di pellegrinaggio, che trasforma luoghi e lapidi in altrettante caselle di un gioco di memoria.



Il tutto viene ricostruito con il preziosissimo contributo delle Teche Rai, cher hanno fornito a regista e sceneggiatori il materiale d'archivio che costituisce il canovaccio sul quale poi si snodano le vicende dei protagonisti.
E io non lo so se le Teche sono patrimonio di Stato, ma se non lo sono dovrebbero diventarlo.
Del film, oltre alle Teche, promuovo a pieni voti Alex Bisconti e Ginevra Antona, che interpretano Arturo e Flora bambini.
Poi c'è Pif, Pierfrancesco Diliberto. Mai avuto grande passione per lui: buona la prima come regista, sorvolo sul resto. Questione di pelle.
E poi la Capotondi. Verrebbe da fermarsi qui. E poi c'è la Capotondi, punto. (A Milano va di moda l'anche no. Ci siamo capiti. Tanto per più di metà film non c'è.)

martedì 28 gennaio 2014

Memoria, Memorandum e Memoriali

Credo di essere sul filo di lana per un pensiero in questa Giornata della Memoria. Pensiero che per fortuna non si limita al 27 gennaio, ma resta latente nella consapevolezza della vita di tutti i giorni.
Questa volta, però, non pesco film o libri, e neppure frasi, foto o poesie. Questa volta è solo uno sfogo. Un pensiero nemmeno troppo nascosto, la voglia di superare il fastidio.
Perché questo mondo iperconnesso nel quale ci muoviamo rende sempre più evidente il distonico distacco tra la commemorazione di circostanza e le frasi ingiuriose che non si prova nemmeno a tacere quando si parla di immigrati, di rom, di razze o religioni.
E allora ci si risparmino le scarpine rosse che spiccano nella foto in bianco e nero, i fili spinati, i pigiami a righe, le stelle, i triangoli, le camerate e i camini.
Ci si risparmi l'ipocrisia.
E che dire poi dei palinsesti televisivi?
Le commemorazioni anticipate a domenica, ah, la dura legge del talk show!, come le festività infrasettimanali. Peccato che il Giorno della Memoria non sia una festività. Per dire eh.
Fine dello sfogo.
Fino al prossimo.

venerdì 24 gennaio 2014

Della poetica del Moccio e delle Zie in gamba

Titolo criptico, ma non trovavo di meglio per riassumere il cineforum di ieri. Ecco.

Diciamolo subito: 180 minuti (179 dice la sinossi) non sono pochi. Per un film francese, molto nei canoni della filmografia francese, sono decisamente tanti.
Eppure si reggono bene, nonostante le sedie scomode del cineforum, nonostante la pesante giornata di lavoro alle spalle.
Perché il film La vita di Adele, del regista tunisino Abdellatif Kechiche, è un bel film e ha non immeritatamente vinto la Palma d'Oro a Cannes grazie anche e soprattutto alle due protagoniste Adèle Exarchopoulos, nel ruolo di Adele e Léa Seydoux in quello di Emma. Loro sono il film.



Nonostante quel che si legge in giro, La vita di Adele non è un film sull'omosessualità. Anche se la storia di snoda lungo il rapporto d'amore delle due protagoniste. Anche se non mancano scene esplicite e indugianti tra di loro. Anche se di passione carnale si tratta.
Se vogliamo è un film che racconta un percorso di vita di una ragazza, Adele, alla scoperta di se stessa.
Una Adele quasi ingorda, e non solo di vita, quando entra in scena appena diciassettenne.
Così vitale che non si può non vedervi ritratti i nostri figli (per me che son femmine, a maggior ragione), con la loro fame, la loro goffaggine, i loro pianti, le loro risate a gola piena.
Poi c'è la scoperta della sessualità, la scelta, l'imbarazzo, la crescita, la maturazione, l'inganno, la perdita, la disperazione, l'annichilimento.
C'è la scoperta di quel che significa diventare grandi, incluse le scelte che non consentono di tornare indietro.
Ci sono tante lacrime, in questo film, soprattutto nell'ultima parte. E in un film girato tutto sui primi piani, le lacrime sono quelle che disfano i lineamenti, gonfiano gli occhi, impiastricciano la faccia di pianto e di muco.
Senza togliere un grammo alla bellezza di quei volti
Adele è meravigliosa e Léa, dopo Bastardi senza gloria e dopo quell'adorabile apparizione nella pubblicità di Prada Candy (del resto il regista in questo caso era Wes Anderson) è una conferma.
Promosso.

E cosa c'entra la zia?
C'entra c'entra.
Perché mia zia (alla soglia degli 81 anni) è un'altra assidua frequentatrice del cineforum, insieme a tre sue amiche, e questa volta era seduta dietro di noi. Alla fine del film, ho osato chiederle un parere, un po' timorosa viste le tre scene centrali non proprio pudiche.
Bello, mi ha detto, un po' lunghino ma bello. Poi, dopo una pausa studiata... Un po' scostumatelle eh!

mercoledì 22 gennaio 2014

Elevate conversazioni alla macchinetta del caffè

- Belle le tue scarpe all'inglese!
- Soprattutto comode. Ci posso girare bene gli alluci.
- In effetti è una scuola di pensiero anche questa.
- Il mio mentore è Pippi Calzelunghe. Non puoi ragionare bene con le dita dei piedi compresse.

Solo mezzora dopo mi sono resa conto delle sue décolletées con tacco a stiletto e una punta classificabile senza timore tra le armi contundenti. Devo farli girare un po' di più questi alluci, mi sa.

Giusto a scanso di equivoci, la "mia" Pippi è questa qui. 
anzi

questa.

[...] Infine non bisogna dimenticare le sue scarpe nere, lunghe esattamente il doppio dei suoi piedi: gliele aveva comprate il suo papà nel sud America, grandi così perché i piedi di Pippi potessero crescervi a loro agio, e lei non aveva mai voluto calzarne delle altre.[...] Astrid Lindgren

venerdì 17 gennaio 2014

Di donne, di Oscar e di città

Sì, sono contenta della nomination de "La Grande Bellezza" agli Oscar. Perché Sorrentino se lo merita (a partire da L'uomo in più, a parer mio). Perché Toni Servillo se lo merita (e tralascerei il fatto che io ho una adorazione per i fratelli Servillo nel loro insieme, con una punta di passione in più per Peppe), perché il personaggio di Jep Gambardella è il cantore di una amoralità che ci accusa. E che ci accusa pesantemente.

Però, e sottolineo però, sono ancora più convinta della nomination all'Oscar di Cate Blanchett, come migliore attrice protagonista, e di Sally Hawkins, come migliore attrice non protagonista, per il film Blue Jasmine di Woody Allen.


Perché sono due figure ciascuna a suo modo immensa. Cate Blanchett è semplicemente meravigliosa. Disegna perfettamente la figura della sua Jeannette/Jasmine e il suo castello di ossessioni, di amarezze, di illusioni e disillusioni, di dipendenze da alcol, farmaci e uomini, purché solidi e "apparenti".
E altrettanto brava è la Hawkins a disegnarne il contraltare, quella sorella "sfigata", bruttina e un po' ammaccata, però consapevole, là dove la consapevolezza è la grande assente dalla vita di Jasmine.
Un film da vedere, nel quale di nuovo l'amoralità è il fil rouge lungo il quale si disegna la storia.
E nel quale Woody Allen ha ri-trovato una Musa capace di farlo graffiare ancora.

Sullo sfondo, non la "solita" New York, dalla quale parte comunque la storia, ma una San Francisco luminosa. E io comunque amo San Francisco.

giovedì 16 gennaio 2014

Spigolature al volo

Bello il Doodle di Google di oggi che ricorda Dian Fossey. Perché la sua storia è di quelle che ti affascinano fin da ragazzina, quando ancora hai voglia di fare l'esploratrice, di salvare la natura, di proteggere il mondo e un po' ci credi pure.


Questa sera parte il nuovo ciclo del cineforum (il primo si è concluso la scorsa settimana). Si ricomincia con Woody Allen. Grandi aspettative, almeno da parte mia.

venerdì 10 gennaio 2014

Del tempo che passa

Mentre Milano fa fatica ad accettare che il Natale sia finito, e l'atrio della Stazione Centrale ancora pullula di bancarelle di torrone, mentre l'albero dei desideri troneggia ancora nel salone del piano terra,


io mi sono rassegnata alla ripresa della routine quotidiana, incluse le sue piacevolezze. Come il cineforum con le amiche.
Il film di ieri sera non credo entrerà mai in qualche top ten degli imperdibili, a meno che la top ten non sia degli imperdibili film cileni oppure degli imperdibili film con Paulina Garcia, che per altro si è meritata l'Orso d'Argento a Berlino per questa sua interpretazione.
Gloria, questo il titolo, diretto da Sebastian Lelio, è un film lentino, anzi, decisamente lento, che tratta di un tema forse un po' desueto: la voglia di vivere, di essere desiderata e desiderabile, di costruirsi un nuovo amore di una donna ormai alla soglia dei sessant'anni, divorziata, con due figli ormai indipendenti. Dell'impossibilità di questa costruzione con un uomo apparentemente nella sua stessa situazione familiare eppure incapace di staccarsi da sensi di colpa e fors'anche dalla vergogna di ammettere con le figlie la sua nuova situazione sentimentale. Del sussulto di orgoglio della protagonista, nelle sequenze finali del film.
La protagonista è semplicemente meravigliosa, soprattutto quando sorride o quando canta da sola in macchina e, certo, è ben diversa dalle patinatissime e tiratissime protagoniste di altri film nei quali il desiderio, anche quello fisico, diventa in qualche modo protagonista. Il suo corpo è un corpo maturo, nei quali i segni dell'età non sono stati coperti da nessun maquillage. E per questo ancor più vero.
Per questo ho trovato fastidiosissime le comari dietro di noi, che han trascorso tutto il film commentando, ridacchiando, condendo di "ohh" di non dissimulato disgusto le comunque pochissime scene di nudo.
Come se, considerata la loro età, non riconoscessero in quei segni quelli che il tempo ha già lasciato anche a loro.



Sul fronte delle letture, giusto per chiudere in bellezza, ho letto le evitabilissime Fiabe Centimetropolitane di Elio (si, senza le Storie Tese), che trovano un senso se raccontate o lette a voce alta, così, tutte in fila, restano un ameno nonsense, e uno struggente Maigret (Maigret e la giovane morta), che invece davvero merita.
Adesso ho finalmente iniziato Io sono Malala, Ne scriverò.

martedì 7 gennaio 2014

Più che l'estate poté il Natale


Non ho (credo) mai sofferto di sindrome da rientro. Sicuramente non da sindrome estiva. Quella di cui parlano i tiggì, scomodando persino i sedicenti esperti, che in genere raccomandano di prendersela con calma (ha ha ha!) e di partire gradualmente (ri-ha ri-ha ri-ha!).
Però il dopo-Natale lo sento un po'. Forse è perché non andiamo mai via in questo periodo, preferendo crogiolarci tra casa, famiglia, amici. E allora conquistiamo tempi e spazi nostri, realizzando quanto ci mancano quando la routine ci fagocita.
Così, la ripresa oggi pesa. Perché sa di nostalgia.
E stasera riporremo albero e presepe, sgranocchiando qualche torroncino residuo, giusto per rendercela più dolce.

Gadget

L'armadio al quale ho messo finalmente mano è il classico refugium peccatorum nel quale chiunque in casa ripone infila ammassa tutte quelle cose che non hanno una collocazione precisa, ma che prima o poi vengono buone. Tanto buone che alcune di loro giacciono indisturbate in quel nascondiglio per anni.
Così, nel fare la cernita, sono emerse graziose scatole di latta o legno, nastri, forbici con le lame sagomate, formine per i lavori in pasta di sale, passamanerie, e magliette. Tante magliette. Quelle promozionali, che spesso le aziende regalano nel corso di eventi o conferenze. E poiché di aziende americane spesso si tratta, sono confezionate in taglie pressoché improponibili per noi, a meno di non utilizzarle come miniabiti o camicie da notte. Quelle che mi arrivano in taglia XL o superiore trovano la loro naturale destinazione da un amico muratore, di stazza possente, che ne apprezza la qualità del cotone.
Le altre restano nell'armadio, pronte per essere indossate come abiti da lavoro, quando è ora di grandi pulizie, di giardinaggio, di lavaggio macchine, di imbiancatura.
Passandole in rassegna, ho scovato le magliette del lancio di Windows 95, 98, Xp. Una di Ibm, quando presentò Os/2 Warp (1994, non so se mi spiego). Le t-shirt di Brother, quando utilizzava Fred Flintstone e gli Antenati per raccontare quanto fossero innovative le sue stampanti, quelle di 3Com, di Palm e ancora quella bellissima di Santa Cruz Operation, con un piccolo alieno verde sprofondato in poltrona.
Molte di queste aziende oggi non ci sono più, acquisite o semplicemente uscite di scena.
E devo dire che mi fa effetto pensare che i loro gadget sono sopravvissuti alla loro storia.

lunedì 6 gennaio 2014

Mucha Calma

Me la sono presa comoda, in questi giorni.
Certo, c'è stato il 31 con gli amici, l'1 in famiglia, qualche lavoro in casa, qualche lavoro d'ufficio, ma se evo tirare le somme, senza nessun rimorso posso dire di aver fatto meno della metà delle cose che mi ero ripromessa di fare, approfittando di questi giorni di ferie.
Perché alla fine mi son detta che se ferie dovevano essere, che lo fossero veramente.
Ecco, sì, il 3 sono andata a trovare una amica, come le avevo promesso, il 4 sono riuscita persino ad affrontare un giro-saldi con le figlie, e oggi mi son decisa di mettere mano a quell'armadio che avrei dovuto sistemare prima delle vacanze. Quelle estive. Poi mi sono ripromessa di farlo in un fine settimana qualsiasi di settembre. Ah no, di ottobre. Di novembre. Ci siamo capiti. Però stamane l'ho fatto. Ho svuotato, ho scartato, ho ripiegato, ho buttato. E l'ho richiuso. Vietando a chiunque di buttarci dentro cose nuove per almeno un paio di mesi. Che mi sembra un lasso ragionevole di tempo per farmi dimenticare la fatica fatta.




In compenso ho terminato il primo libro dell'anno. Mi sono dedicata all'ultimo Lansdale, La foresta. Ora, di Lansdale bisogna accettare tout court il linguaggio e il grand guignol, dopodiché non si può non restare rapiti dalle descrizioni, dai personaggi, dalle iperboli. In questo romanzo non ci sono Hap & Leonard, ma c'è un'America di inizio Novecento, anzi, il West dei primi anni del Novecento, quasi cinematografica.
Il riassunto lo fa lo stesso autore all'inizio del libro: "Il giorno che nonno venne a prendere me e mia sorella Lula [...] Non potevo immaginare [...] che avrei iniziato a frequentare un pistolero nano, il figlio di uno schiavo e un grosso maiale inferocito, né che avrei trovato l'amore e ucciso qualcuno. Ma le cose andarono proprio così".